(La prima nebbia)

Torino era stanca quella mattina. La nebbia avvolgeva i palazzi, creando un netto confine tra la terra ed il cielo. Tutto ciò che era nel bianco era morto, come inesistente. Iris si voltò di scatto, il cappotto lungo che frusciava contro le scarpe da ginnastica. Un urlo nella nebbia. “Anche nella morte c’è vita, allora” pensò mentre svoltava l’angolo. Affrettò il passo. Era in ritardo e si sa che ai morti non piace attendere.

(La dinastia Edo)

Entrò nella chiesa in silenzio, come morte vuole. Le persone tra i banchi erano molte e questo non la stupì affatto. In fondo suo zio Abdel era una persona conosciuta. La sorprese però il trovare il proprio posto in prima fila occupato: essendo l’unica parente in città spettava a lei. Si sfilò il cappotto e lo poggiò su una panca deserta lontano dall’altare. I ritardatari non protestano mai. “In fondo” pensò “sono anni che non vedo lo zio. Meglio lasciare i primi posti a chi lo ha accompagnato fino all’ultimo”.

La cerimonia fu breve, come era prassi della sua famiglia allergica alle formalità. Svolse il suo compito di ricevere le condoglianze da tutti gli invitati con la gentilezza che suo padre, bloccato a Londra da una malore, le aveva raccomandato. Toccava a lei ora rappresentare l’onorevole dinastia Edo, rinomata per sfornare esperti d’arte mondiale e direttori di prestigiosi Musei. Suo padre dirigeva un’importante sezione del British Museum nella capitale inglese mentre suo zio il Museo Egizio di Torino. Lei era un po’ diversa. Mentre loro decodificavano codici sumeri, lei i codici li scriveva. Era una programmatrice insomma.

La situazione in cui si ritrovava in quel momento era totalmente imprevista: aveva le valigie pronte il giorno prima ma per andare in Sud America, non nel nord Italia. Fino a quella telefonata, fatta da suo padre il giorno prima, in cui le aveva chiesto di sostituirlo all’ultimo minuto. Così, valigie in mano, era corsa a prendere il primo aereo.

Mentre l’ultima persona usciva dalla chiesa oramai deserta Iris si voltò un’ultima volta verso la bara: notò che in un angolo era leggermente graffiata. Era un graffio strano. Poi ne notò altri. Impercettibili. Sottili. Ma precisi e paralleli. Avvicinò la mano al legno freddo, appoggiando ogni dita ad un segno preciso. Erano cinque, come le dita di una mano. Riusciva a coprirli solo tenendo la mano interamente aperta. Ma da quando i gatti hanno zampe così grosse?

(L’attesa)

A quel punto tutti erano tornati a casa: tutti tranne lei. Non sarebbe potuta entrare finché non fosse passata prima in commissariato. Non aveva capito bene il perché, ma pareva fosse urgente.

Nell’androne trovò un poliziotto mezzo addormentato a cui però una volta dato il documento di identità lo sguardo cambiò totalmente. Si fece spaventato e corse via blaterando qualcosa. Lei lo aspettò lì, pensando che doveva essere davvero impresentabile se faceva quell’effetto alle persone. Si aggiustò i lucidi capelli neri, eredità dei suoi geni indiani, in una goffa coda ribelle e si tolse il cappotto. Si guardò nello specchio dell’ingresso: la pelle ambra era stranamente pallida, forse per la stanchezza. Qualcuno la chiamò e quando si girò di lato sullo specchio si rivelò un profilo leggermente aquilino che ricordava le statue greche. Il sangue indiano di suo padre tradiva le origini torinesi di sua madre in quel ritratto improvvisato.

<<Iris Edo?>> la chiamò la voce da una stanza.

Si avviò. Finalmente qualcuno le avrebbe spiegò cosa c’era di tanto urgente da non permetterle neanche di entrare in casa sua dopo un funerale. I morti bisogna lasciarli in pace, ma anche i vivi gradirebbero.